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Suprema Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, sentenza n. 10090/2001 - (Presidente: L. Sansone; Relatore: T. Gurribba)
MALTRATTAMENTO SUL LAVORO






LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

SENTENZA

MOTIVI DELLA DECISIONE


Con sentenza del I° febbraio 1999 la Corte d’appello di Milano confermava le condanne alle pene di anni cinque e anni quattro di reclusione rispettivamente inflitte dal Pretore a E. O. e C. C., dichiarati colpevoli:

il primo, dei reati continuati di cui agli artt. 572 [1] e 610 cod. pen. [2], per avere, quale capogruppo responsabile di zona per le vendite porta a porta di prodotti per la casa per conto della ditta gestita da C. C., maltrattato, con atti di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti alla sua autorità nello svolgimento della attività lavorativa e, inoltre, per avere, con i medesimi atti di violenza fisica e morale, costretto i predetti giovani a intensificare l’impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità; il secondo, del reato continuato di cui all’art. 610 cod. pen., per avere, quale titolare della ditta predetta, avvalendosi del clima di intimidazione creato dai suoi capigruppo e omettendo di reprimere i loro eccessi, costretto gli anzidetti giovani ad aumentare l’impegno lavorativo oltre il tollerabile.

Avverso tale sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

Erba denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione: in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di maltrattamenti, deducendo: l’insussistenza di un elemento costitutivo del reato, perché il rapporto di lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza familiare previsto dall’art. 572 cod. pen.; che non sarebbe stato provato il dolo, perché gli isolati episodi di violenza sarebbero stati commessi con dolo d’impeto; in ordine al reato di violenza privata, deducendo che non sarebbe stata dimostrata la pretesa coazione, dato che i giovani erano assolutamente liberi di interrompere il rapporto di lavoro quando l’avessero voluto; in ordine alla pena inflitta, lamentando che essa sarebbe eccessiva non essendosi tenuto conto della condotta positiva susseguente al reato.

Cominciando dall’esame del primo motivo, si osserva che, anche se l’ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell’art. 572 cod. pen. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli), la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in danno di persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, per l’esercizio di una professione o di un’arte.

Si tratta di ipotesi di reato, in questi ultimi casi, in cui è richiesta, a differenza della prima, la coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente da cause da quella familiare.

Venendo al caso in esame, non v’è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testè richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno dal lavoratore dipendente.

Vi è da aggiungere che nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava autore del reato e vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un’assidua comunanza di vita.

Ma l’aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto, diffusamente illustrato dai giudici del merito, che l’imputato, con ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di troncare il rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia assai cogente, dato che il lavoro era svolto in nero e le retribuzioni venivano depositate su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti dal datore di lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell'impresa direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate.

Ne risulta, dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col termine di maltrattamenti.

Per quanto attiene poi all’elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata ha posto in rilievo non soltanto la sussistenza del dolo, concentratosi nella coscienza e volontà di ledere in modo abituale l’integrità fisica e morale dei soggetti passivi, ma anche il movente, individuato nella ricerca del massimo profitto, che, al di là di ogni dubbio, prova il disegno sottostante ai singoli fatti di violenza e minaccia, che risultano quindi cementati da una volontà unitaria e persistente, che va oltre il singolo episodio.

Il motivo di ricorso è quindi infondato.

Il secondo motivo è manifestamente infondato, dato che la sentenza impugnata, proprio per rispondere alla deduzione difensiva già proposta con i motivi d’appello, ha spiegato che l’asserita libertà delle vittime, di licensiarsi in qualsiasi momento l’avessero voluto, era puramente apparente, perché, atteso il meccanismo del pagamento posticipato delle retribuzioni e del deposito delle relative somme su libretti di risparmio trattenuti dal datore di lavoro, esse temevano che, andandosene, si sarebbe verificato quanto era stato loro minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate.

E’ manifestamente infondato anche il terzo motivo, perché il giudice di merito ha indicato a quali dei parametri elencati dall’art. 133 cod. pen. Si è attenuto nell’esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena (la gravità dei fatti, la durata nel tempo della condotta delittuosa, il numero degli episodi e delle vittime), e tale scelta, essendo adeguatamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità.

Con motivo nuovo presentato ai sensi dell’art. 585 comma 4 cod. proc. pen., la difesa del ricorrente E. denuncia altro profilo di violazione della legge penale, sostenendo che i fatti contestati avrebbero dovuto essere qualificati come abuso dei mezzi di correzione e disciplina a mente dell’art. 571 cod. pen., perché la violazione e minacce costituivano manifestazione, seppure abnorme, del potere disciplinare che competeva al ricorrente quale responsabile dell’attività produttiva delle vittime.

Anche questo motivo è palesemente infondato.

L’abuso punito dall’art. 571 cod. pen. Ha per presupposto logico necessario l’esistenza di un uso lecito dei poteri di correzione e disciplina, e quindi si verifica quando l’uso è effettuato fuori dei casi consentiti o con mezzi e modalità non ammesse dall’ordinamento.

Venendo al caso concreto, si rammenta che lo Statuto dei lavoratori ha bandito ogni ricorso alla violenza da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato, per cui le violenze nella fattispecie commesse non possono rientrare nella previsione dell’art. 571 cit.

Non solo, ma alla sussistenza dei fatti nella fattispecie legale prevista dall’art. 571 osta la finalità perseguita dagli autori del reato nell’esercizio del preteso jus corrigendi.

Come hanno rimarcato i giudici di merito, gli imputati perpetrarono sui giovani dipendenti le vessazioni fisiche e morali sopra descritte, non come punizione per l’erronea esecuzione del lavoro o per episodi di indisciplina o per altri fatti inerenti al corretto svolgimento dell’attività lavorativa, ma per costringerli a sopportare ritmi di lavoro altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in una condizione di sfruttamento di tipo schiavistico la condotta afflittiva posta in essere dagli imputati non perseguiva dunque il fine educativo- correttivo che deve contraddistinguere l’uso dei mezzi di correzione, ma mirava soltanto a scopi di lucro personale.

Il ricorso di E. deve dunque essere rigettato.

C. denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza, sostenendo che no sarebbe stata fornita la dimostrazione ch’egli sapesse o incoraggiasse la condotta illecita dei suoi capigruppo, che, anzi, sarebbe risultato che, ogni qualvolta fu informato dei loro eccessi, egli intervenne per reprimerli.

Si duole infine dell’entità della pena irrogata e del diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Il ricorrente C. è stato ritenuto colpevole del reato di violenza privata continuata in applicazione del principio stabilito dall’art. 40 cod. pen., secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Infatti, argomenta la sentenza impugnata, egli, quale imprenditore, era tenuto in forza dal disposto di cui all’art. 2087 cod. civ. ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, per cui, omettendo di porre fine alle vessazione attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti, se ne rese corresponsabile.

Quanto al dolo, la Corte di merito, con motivazione coerente con le risultanze probatorie e logicamente ineccepibile, ha spiegato che il ricorrente era perfettamente consapevole dei metodi vessatori usati dai capigruppo (e anzi li condivideva, essendo personalmente interessato al massimo sfruttamento dei dipendenti, i cui libretti di deposito tratteneva a fini ricattatori), e, sebbene ripetutamente sollecitato dalle povere vittime a intervenire, nulla aveva fatto per reprimere o interrompere la condotta antigiuridica dei capigruppo.

Le censure sollevate dalla difesa su questo punto sono dunque infondate, al pari di quelle concernenti il diniego delle circostanze attenuanti generiche (peraltro connesse dal primo giudice) e la misura della pena inflitta, che il giudice d’appello ha ritenuto di confermare, sottolineando, con valutazione discrezionale insindacabile, la notevole gravità dei fatti.

PQM

La Corte di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.

Roma, 22 gennaio 2001.

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2001.